Il coronavirus ormai ci ha raggiunti ed è diventato il principale argomento in tv, in radio e nelle nostre tavole. Ma nella storia ci sono stati altri casi di grandi epidemie, che hanno sconvolto interi stati e che sono state raccontate nella letteratura. Molti sono stati gli scrittori che sono stati colpiti e ispirati da questi eventi, ed altrettante sono le testimonianze riportate nelle loro opere.
Peste antonina
La peste antonina, diffusasi tra il 165 e il 180 è stata un’antica pandemia di vaiolo, portata in patria dall’esercito romano di ritorno dalle campagne militari contro i Parti. Essa era di lunga durata e comportava febbre, diarrea e infiammazioni della faringe, oltre a eruzioni sulla pelle.
Sconvolti dal disastro, molti si affidarono alla protezione offerta dalla magia. I racconti ironici di Luciano di Samosata riguardo al ciarlatano Alessandro di Abonutico affermano che un suo verso “che aveva spedito a tutte le nazioni durante la pestilenza… fu visto scritto ovunque sulle porte”, in particolare in quelle case che erano rimaste vuote di abitanti.
Inoltre, durante la campagna germanica, Marco Aurelio scrisse anche la sua opera filosofica intitolata “Colloqui con se stesso” in cui in un passaggio afferma che la pestilenza attorno a lui era meno letale della menzogna, del comportamento maligno e della mancanza di vera comprensione.
La peste nera
La peste nera fu una pandemia, diffusasi nel 1346, dal nord della Cina, che si trasmette generalmente dai ratti agli uomini per mezzo delle pulci. Oltre alle devastanti conseguenze demografiche, la peste nera ebbe un forte impatto nella società del tempo. La popolazione in cerca di spiegazioni e rimedi arrivò talvolta a ritenere responsabili gli ebrei dando luogo a persecuzioni e uccisioni; molti attribuirono l’epidemia alla volontà di Dio e di conseguenza nacquero diversi movimenti religiosi, tra cui uno dei più celebri fu quello dei flagellanti.
La peste nera fa da sfondo al “Decameron” di Giovanni Boccaccio, scritto tra il 1350 e il 1353. L’opera, una raccolta di cento novelle, è ambientata in una casa di campagna posta sulle colline fuori Firenze, a breve distanza dalla città; qui, sette giovani donne e tre giovani uomini si sono rifugiati per scampare all’epidemia che infuria in città tra la primavera e l’estate del 1348.
L’introduzione del libro è una delle fonti medievali più dettagliate sull’impatto della peste in città:
«Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti né atati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n’erano che nella strada pubblica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a’ vicini sentire sé esser morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno.
Era il più da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per sé medesimi e con l’aiuto d’alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano dalle lor case li corpi de’ già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, (e tali furono, che, per difetto di quelle, sopra alcuna tavole) ne portavano.
Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e ‘l marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno.»
La peste manzoniana
La peste del 1630 fu un’epidemia di peste diffusasi nel periodo tra il 1629 e il 1633 che colpì, fra le altre, diverse zone dell’Italia settentrionale, un’epidemia nota anche come peste manzoniana perché venne ampiamente descritta da Alessandro Manzoni nel romanzo “I promessi sposi” e nel saggio storico “Storia della colonna infame”.
La vicenda della Storia della colonna infame narra del processo intentato a Milano, durante la terribile peste del 1630, contro due presunti untori, ritenuti responsabili del contagio pestilenziale in seguito a un’accusa infondata.
Il processo, svoltosi storicamente nell’estate del 1630, decretò sia la condanna capitale di due innocenti, giustiziati con il supplizio della ruota, sia la distruzione della casa-bottega di uno dei due. Come monito venne eretta sulle macerie dell’abitazione la “colonna infame”, che dà il nome alla vicenda.
Solo nel 1778 la Colonna Infame, ormai divenuta una testimonianza d’infamia non più a carico dei condannati, ma dei giudici che avevano commesso un’enorme ingiustizia, fu abbattuta. Nel Castello Sforzesco di Milano se ne conserva la lapide, che reca una descrizione, in latino seicentesco, delle pene inflitte.
«L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sè»
Il colera
Il colera era una malattia endemica di alcune zone asiatiche e soprattutto dell’India, segnalata già nel 1490 nella regione del delta del Gange da Vasco da Gama.
Nel corso dell’Ottocento, a causa di movimenti militari e commerciali dell’Inghilterra nel continente indiano, e delle macchine a vapore che resero sempre più numerosi i viaggi, il colera cominciò a diffondersi su quasi tutto il globo, e quando scoppia in Europa, colpisce subito la fantasia di molti scrittori.
Riguardo al colera, si può citare un sonetto poco noto di Luigi Capuana, intitolato “Lu colèra”, del 1887.
Al centro del componimento la credenza popolare che il colera fosse sparso dietro autorizzazione del sindaco e del parroco e che fosse destinato soprattutto alla plebe, in quanto i ricchi possedevano il contravveleno.
Si guardavano con sospetto le figure istituzionali della provincia di Catania, come il pretore e il maresciallo dei carabinieri.
“Il cerchio dei paesi infestati si stringeva attorno a Rammacca. La povera gente si rassegnava alla fatalità del male, pur cercando di prendere tutte le precauzioni, tappando usci e finestre, chiudendosi in casa all’avemmaria, non uscendo prima che il sole fosse alto e avesse disperso il veleno.”
Giovanni Verga, invece, nella rielaborazione di un testo del 1884 che aveva come titolo “Untori”, ambientato nel 1837, durante gli anni di epidemia del colera, mette al centro della vicenda gli untori, propagatori della malattia e la conseguente reazione popolare. Verga illustra le violente tipologie di reazioni popolari e descrive la reazione animalesca insita nella natura dell’uomo.
Il tifo esantematico
Si tratta di una malattia infettiva presente in luoghi con gravi deficienze sanitarie ed è responsabile di epidemie laddove alle scarse condizioni igieniche si assommano guerre, disastri naturali o carestie.
Questa forma di tifo è presente nei paesi a clima temperato e le epidemie sono chiamate con diversi nomi: febbre delle prigioni, febbre da carestia o febbre degli ospedali.
Durante la Seconda guerra mondiale, a causa delle inimmaginabili condizioni igieniche dei campi di concentramento della Germania nazista, i deportati furono colpiti dal tifo che causò la morte di migliaia di persone. Celebre è il caso di Anna Frank e della sorella Margot, che morirono di questa malattia nel campo di Bergen Belsen. Il tifo esantematico era diffuso anche nei gulag sovietici.
Sitografia
- https://it.wikipedia.org/wiki/Peste_nera
- https://it.wikipedia.org/wiki/Peste_del_1630
- https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_colera
- https://it.wikipedia.org/wiki/Peste_antonina
- https://it.wikipedia.org/wiki/Tifo_esantematico
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